Arte e Cibo – oggetti, dipinti, design dai Piceni ai giorni nostri – Video


CATEGORIA ARTISTICA

Pittura
Scultura
Ceramiche
Maioliche
Oggetti di design

CURATORI

Enrica Bruni Stronati
Stefano Papetti

SPAZIO ESPOSITIVO

Auditorium di Sant’Agostino
Pinacoteca civica Marco Moretti

Studio LightBOX ha fatto sintesi di immagini che restituiscono l’idea del percorso storico legato ai temi artistici della mostra, e alla cultura del design, ricercando poi lo sguardo curioso dello spettatore, complice occasionale ma indispensabile di ogni percorso espositivo.
Lo sguardo si appoggia su forme e colori che creano sintesi riconoscibili e accoglienti, creando una piacevolezza emozionale che porta lontano la nostra immaginazione.

“Il cibo proposto non solo nella veste di piacere e ingrediente chiave della nostra vita emotiva, ma anche oggetto esplicito di ricerca, metafora e simbolo; specchio di culture diverse.”
(fonte : comunicato stampa Arte e Cibo, in Touring Club Italia.it)

APPROFONDIMENTI

Potremmo dire che l’arte moderna comincia con una madre (la storia), che ha rinnegato i propri figli, e continua poi attraverso una serie di malintesi, ma si può però renderla coerente mediante un’estetica che definisca l’arte in modo molto positivo e concreto. Questa estetica definisce l’arte come un mezzo per concepire il mondo in modo visivo. Tutta la storia dell’arte è una storia di modi di percezione visiva: delle varie maniere in cui l’uomo ha visto il mondo. Noi vediamo ciò che impariamo a vedere, e la visione diventa un’abitudine, una convenzione, una scelta parziale di tutto quello che c’è da vedere, e un compendio deformato del resto. Quello che vediamo deve essere reso reale, in tal modo l’arte diventa la costruzione della realtà. Non c’è dubbio che, ciò che viene oggi chiamato il movimento moderno dell’arte, incomincia dalla decisione isolata, e personale, di un pittore francese, di vedere il mondo obiettivamente. È chiaro che Cézanne desiderava vedere il mondo, o quella parte di esso che egli stava contemplando, come un oggetto, senza alcun intervento, sia di ordine razionale, sia delle emozioni irrazionali. I suoi immediati predecessori, gli Impressionisti, avevano visto il mondo soggettivamente, cioè come si presentava ai sensi sotto varie luci, o diversi punti di vista, e ogni impressione, dava origine a una diversa opera d’arte. Ma Cèzanne voleva oltrepassare la superficie brillante e ambigua delle cose per penetrare nella realtà immutabile. Notava Virginia Woolf, a proposito delle opere di Cézanne, esposte nel 1910 a Londra: “Ci sono sei mele nel quadro di Cézanne. Che cosa possono essere sei mele? C’è il rapporto tra ognuna di loro e il colore e il volume… . Quanto più le si guarda tanto più le mele sembrano diventare più rosse e rotonde e più verdi e pesanti… il loro pigmento stesso, toccare qualche nostro nervo, stimolare, eccitare… suggerisce forme dove prima non vedevano che vuoto…”. Un tale entusiasmo non deve sorprendere in una scrittrice sensibile come la Woolf, che di Paul Cézanne sembra condividere le stesse esigenze espressive, e le fatiche della lotta creativa. Dipingere la materia che sta coagulandosi, rendere il mondo nella sua densità, l’opaco, il trasparente, i diversi stadi della materialità delle cose, rappresentò una sfida per l’artista provenzale e per la scrittrice inglese. Diceva, Cézanne, in un suo scritto: ”In un’arancia come in una mela, o in una palla, o in una testa, c’è sempre un punto culminante che coincide col nostro punto di vista, nonostante sia reso con toni a effetto: luci, ombre, sensazioni coloranti. I contorni, degli oggetti, fuggono verso un centro collocato sul nostro orizzonte”. Questa mia insistita sottolineatura, legata al lavoro di Cézanne sulle “cose”, nasce anche dal fatto che negli anni della tranquilla, e relativamente prospera, moderatamente progressista, Italia giolittiana, fino allo scoppio della prima guerra mondiale, la cultura artistica ufficiale era ancora accademica: quello che vi è di nuovo è limitato a cerchie ancora ristrette. Sintomi di rinnovamento, almeno sul piano culturale, sono tuttavia in alcuni scritti legati agli impressionisti, che compaiono ad opera del critico Vittorio Pica, e del pittore Ardengo Soffici, che dirige la vivace rivista fiorentina “La voce”. Per la stessa via si diffonde anche da noi la conoscenza di Cézanne, la cui pittura rimarrà fondamentale in buona parte della ricerca moderna del Novecento nostrano. Pure Pablo Picasso creava delle “nature morte”, altamente espressive: costruzioni di volumi coperti di colori contrastanti e vivacissimi, che avevano la preziosità dell’intarsio, secondo un ritmo martellato e durissimo, in cui ci pare di scorgere lo sforzo dell’invenzione dal nulla, che influenzerà la pittura di Morlotti, Monachesi, e degli espressionisti. Un discorso a parte è quello dei Futuristi che invece esemplificarono le teorie del dinamismo universale con sacra foga romantica, ma cercarono di dare vita ad una pagina di pittura politica tipicamente italiana. Per poco più di un triennio, 1916-1920, ha una forte evidenza artistica in Italia, con centro a Ferrara, un piccolo gruppo di grandissimi artisti, che si richiamarono ad un’idea di pittura metafisica: sono De Chirico (in Francia lo riconoscono come l’apostolo del Surrealismo), Carrà e Morandi. Ma De Chirico ripudierà ben presto i vaticini metafisici per darsi a una pittura la quale voleva valorizzare la sostanza dei colori pieni di turgore, che genererà bellissime “nature morte” (non dimentiche anche delle canestre di Caravaggio), che lui chiamava “nature silenti”, o stilleven, in cui il verismo mimetico e illusionistico era estremo. Queste opere esibiscono la consistente forma visibile e l’evanescente prospettiva del loro prossimo consumarsi, come avveniva nella pittura olandese del Seicento. Per Carlo Carrà la pittura “metafisica” ha avuto, dopo l’esperienza futurista, che lo aveva liberato dal Divisionismo, il valore di una serie di esercizi di grammatica pittorica, in cui mescolava calchi, oggetti e cibi, che gli serviranno di base per la sua vera conquista della natura, dal 1921 in poi, partecipando al movimento del Novecento. Morandi, che aveva iniziato studiando le riproduzioni di opere di Cézanne, partecipava alla “metafisica” accentuando la geometricità delle nature morte, ponendo le basi della sua prossima maturità artistica. Il Novecento italiano nacque a Milano, voluto da un gruppo di pittori, in seguito le adesioni furono in crescendo, sotto l’ala ambigua di Margherita Sarfatti, che era il critico militante del movimento, con la sua retorica nazionalista e il suo classicismo di maniera. Ma, a parte questi sbandamenti, e a parte la mediocrità di molti suoi componenti, il “900” si richiamò alla necessità di un ritorno alla natura come reazione ai movimenti d’avanguardia dell’anteguerra, e pure dell’Impressionismo, inoltre predicò l’importanza della fase “neoclassica” di Picasso, il ritorno ai “Valori plastici”, cioè ad un’arte che riconquistasse la natura organizzandola in salde composizioni volumetriche. Di qui il riavvicinamento massiccio alla “natura morta”, ai frutti della terra, che permettevano di adire a sottili valori cromatici-pittorici. Non si possono dimenticare dunque le “nature morte” di Arturo Tosi (che si muoveva nel solco del Piccio, di Ranzoni, e di Cézanne), dipinte con un linguaggio conciso, fatto di colori densi, collosi, scuri, e di semplificazioni compositive intime e materiche. Mentre Carlo Carrà invece ha trovato una profonda poesia nella tensione che lo spingeva verso una ricomposizione organica della visione della natura, cosi come avveniva per Raffaele de Grada. Anche Felice Casorati fece parte, in un primo tempo, forse da posizione defilata, del novecentismo, ma in seguito i suoi volumi divennero interpreti di uno spazio astratto e senz’aria, più tardi questa musicalità si espresse soprattutto attraverso delicati rapporti tonali, che si notano soprattutto nelle affascinanti e melanconiche “nature morte” con le uova, che portano avanti un clima decisamente “anticlassicista”.
Anche se è ovvio che la personalità di Achille Funi, si identificasse col lato più ufficialmente classicista del Novecento, l’artista non abbandonò mai una sua tipica veste di “spontaneità” creativa, di modernità pittorica, pur nel riecheggiamento delle forme e delle composizioni tizianesche o pompeiane. Filippo De Pisis, se pur proveniente da “Valori plastici” e dalla “Metafisica”, ha poi praticato un orientamento pittorico, che nasceva dalla sua conoscenza diretta dell’Impressionismo, anche se ne attenuava parecchio gli aspetti naturalistici, e condizionava la visione delle cose e degli oggetti a stati d’animo fuggevoli. Il suo linguaggio è fatto di una pennellata leggerissima, che nelle sue “nature morte” pare registrare soltanto la commozione sottile di fissare un istante di vita capace di gioire del rosso di un gambero, o del giallo povero di una conchiglia. Il raggruppamento del Novecento non aveva ancora esaurito il suo ciclo vitale, che già nel periodo tra la sua prima e la seconda mostra (1926, 1929), attraverso le quali esso si fece conoscere, cominciarono ad attenuarsi quei legami di natura non filosofica, o artistica, tra chi aveva aderito, ma prevalsero in maniera forte quelli politico-diplomatici, che erano alla sua base. Gli artisti che componevano lo schieramento cominciarono ad andare ciascuno per proprio conto, nelle direzioni che erano loro proprie, ingaggiando in verità una lotta accanita per sopravvivere alla storia. Faceva però eccezione la tesi del ”Realismo magico”, elaborata da Massimo Bontempelli, nel 1926, essa fu l’unico tentativo di conferire una giustificazione storico-filosofica al nuovo movimento: avvero creare i “miti” di una nuova epoca, superando classicismo e cristianesimo, anche se tutto questo era troppo ambiguo per diventare una vera piattaforma. Comunque tali tesi hanno trovato riscontro a Roma, attraverso l’attività di artisti come: Pirandello, Cagli, Scipione, che guardavano a miti umani quali: Carrà, De Chirico, Morandi. Da quella sfera era ormai fuori il cosiddetto gruppo dei ”6 di Torino”, guidato da Enrico Paulucci, essi non condividevano l’arcaismo metafisico, né le posizioni politico-sociali di Sironi e dei sironiani. Non c’è dubbio che Paulucci ha guidato la sua pattuglia verso la conoscenza della pittura fauves, e il recupero di valori cromatici timbrici e caldi. Anche il nuovo gruppo degli espressionisti e degli astrattisti, raccolti, nel 1930, attorno alla milanese Galleria del Milione, tra i quali c’era anche Osvaldo Licini (qui con una bellissima natura morta), rimproveravano ai novecentisti gli innumerevoli compromessi perpetrati ai danni dell’”avanguardia”, e della libertà creatrice dell’arte. Ugualmente negativi erano gli espressionisti romani, in polemica col Novecento per la sua freddezza accademica, e il suo relativo, talora bolso, classicismo. In questo quadro l’attacco della estrema ala “classicista” contro le posizioni “moderniste” ha continuato a svilupparsi con accanimento, mettendo magari in moto tattiche opportuniste. La pressione per un’arte di regime si faceva sentire con una forza sempre maggiore. A Roma, tuttavia, già con la II Quadriennale (1935), appariva evidente l’esistenza di un filone metafisico – che però aveva fatto ormai il suo corso – nettamente espressionista, la cosiddetta “Scuola Romana”, di cui si suole attribuire la paternità al binomio Scipione-Mafai. A questo raggruppamento appartengono anche: Edita Broglio, Felice Carena, Sante Monachesi. La Broglio (moglie di Mario Broglio), se pur nei primi tempi mostrava caratteri fauves ed espressionisti, nel dopoguerra, con il suo interesse verso “Valori plastici” ha recuperato temi antichi, legati alla favola e al magico. Carena, allievo a Torino di Grosso, si spostò giovanissimo a Roma, dove si avvicinò al gruppo del Novecento, per poi arrivare ad una pittura dagli accenti espressionisti derivati dalla Scuola romana. Mario Tozzi, fin dal 1919, a Parigi fu uno degli animatori della “Ecole italienne de Paris”, svolgendo così un importante funzione di tramite tra la cultura italiana e quella francese, si avvicinò alle idee di “Valori plastici”, cercando nei temi comuni implicazioni mitiche. È innegabile che nel XX secolo la “Natura Morta” ha conosciuto momenti di rinnovata fortuna rispetto ai secoli passati, sia nell’ambito di gruppi, o di tendenze, sia in singole personalità artistiche. A tale genere, in parte svuotato dei suoi tradizionali significati simbolici, si è ricorso quando l’interesse dei pittori si è concentrato sui valori puramente linguistico-strutturali dell’immagine dipinta, per lo più privi di riferimenti significativi alla storia, ovvero a componenti di tipo narrativo. Crali è stato un autore, anzi un pittore, sorto dalle ceneri del Futurismo, diventando in seguito un protagonista dell’“aereopittura”, o Secondo futurismo, ai cui programmi estetici restò fedele anche nel secondo Novecento, da cui trasse ispirazione per questa sua natura morta dai forti volumi vegetali. Tulli invece, pur avendo la medesima radice stilistica, negli anni Sessanta creava composizioni quasi astratte, che possedevano un forte ritmo lineare, capace di oscurarne il tema di partenza. Nel dopoguerra, dopo esercizi pittorici di verismo mimetico e illusionistico estremo, nettamente realistici come quelli di Renato Guttuso, Armando Pizzinato, Giuseppe Zigaina, Mario Calandri, nasceva, in contrasto il movimento Informale e astratto. Nel decennio seguente ha trovato molta udienza l’Arte Concettuale e poi l’Arte Povera, che ha preparato il terreno alla particolare Pop-Art italiana, legata ai materiali, alla propria storia artistica passata, e con la passione per la natura ormai in crisi. Due artisti, che hanno fatto da cerniera tra Arte Povera e Pop, sono stati Aldo Mondino e Piero Gilardi. Del primo si ricordano le sue opere con torrone, caramello, cioccolato, fagioli, zucchero, caffè (non dimentichiamo che anche i “poveristi” hanno adoperato le patate, frutta, verdura, grasso, insalata), infatti i quadri di Mondino sono costruiti con i gianduiotti (cioccolatini), come se fossero tessere di un mosaico giocoso e goloso, come un intarsio orientale fatto di oro e luce. Piero Gilardi, anche lui è nato all’arte nel clima povero torinese, i suoi “appeti natura”, sorta di sculture da pavimento, fatte di poliuterano dipinto, creano oasi di frutti e verdure, che segnarono un forte discrimine tra falsa natura ed effimera materia sintetica, paradossale denuncia del predominio dell’artificiale sul reale. In tutto questo riscontriamo che, sotto il guscio materiale di tele, tavole, materiali nuovi, immagini e colori, le cose dipinte nascondono precisi valori simbolici. I vegetali, la frutta, la cacciagione i pesci, le uova, sono tutte cose dipinte per la gioia e il godimento degli uomini. Esse ci appaiono ancora sospese tra la vita effimera, la loro consistente forma visibile, e l’evanescente prospettiva del loro prossimo consumarsi. Noi oggi contempliamo il dipinto nella sua vita rappresa, nel suo parlare muto, che tuttavia reclama il nostro coinvolgimento, raffigurando, simultaneamente, qualcosa di più e qualcosa di meno, rispetto alla realtà fisica, della sua salda consistenza. Partecipiamo così al comune destino di tutto ciò che nasce e muore. La pittura rende durevoli le cose, le fissa nel loro muto persistere. La provvisorietà viene riscattata, e il godimento – promesso dalla loro immediata consumazione in forma di cibo, o bevanda – diventa virtualmente infinito per lo sguardo di ogni futuro possibile fruitore. Nella rappresentazione pittorica (ma anche nella fotografia e nel cinema) le cose vengono trasportate in un altro spazio, sospese nel tempo e messe, per quanto è possibile, al riparo dall’oblio, dal decadimento, dalla morte. Acquistando impassibilità e immobilità nell’arte, staccandosi dal dominio del divenire in cui gli oggetti sono inevitabilmente destinati a scomparire, l’effimero tende, nella pittura, a farsi eterno. L’opera d’arte aiuta a sciogliere ancora meglio l’apparente contraddizione insita nell’espressione “vita delle cose”, perché la “vita” che si riferisce a ciò che nasce e nuore, permane nelle cose rappresentate immobili dallo stilleven. In questo caso volendo parlare di nature morte legate al cibo, le nostre percezioni sensoriali, intrecciandosi con i significati, disegnano i confini fluttuanti dell’ambiente in cui viviamo, ne precisano l’estensione e il sapore. I sensi non sono “finestre sul mondo”, specchi che registrano le cose in modo indifferente alla cultura e alla sensibilità, bensì filtri che trattengono nella loro rete solo ciò che si è imparato a mettervi, e ciò che si cerca di identificare mobilitando tutte le proprie risorse. La cucina è l’arte di predisporre i sapori per il piacere di coloro che mangiano, si nutrono, ed è una musica del gusto; è l’arte di comporre gli elementi per trarne sapori seduttivi in forme innumerevoli e sofisticate. Ma cosa fanno, o cosa non hanno fatto, gli artisti per raggiungere questi traguardi? Il gusto, come l’arte, è un prodotto della storia e dei territori, e in particolare il luogo in cui gli artisti si collocano nella trama simbolica della propria cultura.

Marisa Vescovo

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