Recuperata Ars – beni artistici salvati dal terremoto

DATA: dal 17 dicembre 2017 al 25 febbraio 2018

LUOGO: Civitanova Marche Alta – Via Annibal Caro, 1

SPAZIO:
Spazio espositivo Multimediale San Francesco, Pinacoteca civica Marco Moretti

EVENTO:
Recuperata ars beni artistici salvati dal terremoto

CURATO DA: Enrica Bruni Stronati

AUTORI:
Martino Bonfili
Gian Domenico Cerrini
Giovanni Silvani
Luca Vitelli
Domenico Accinti
Pietro Tedeschi
Filippo De Conte
Antonio Liozzi
Ubaldo Ricci
Ignoto marchigiano sec. XV°

GENERE:
Esposizioni

CATEGORIA ARTISTICA:
Pittura
Scultura
Arte Sacra

PROGETTO TECNICO E DIREZIONE DEI LAVORI: Marco Pipponzi

ORGANIZZATO DA: Pinacoteca civica Marco Moretti

ENTI PROMOTORI:
Comune di Civitanova Marche, Pinacoteca civica Marco Moretti, Assessorato alla crescita culturale, Azienda speciale Teatri di Civitanova Marche

COMUNICATO STAMPA

La mostra “Recuperata Ars”, voluta dal Comune di Civitanova Marche, Assessorato alla Cultura, allestita presso lo SPAZIO MULTIMEDIALE SAN FRANCESCO, in collaborazione con l’Azienda Teatri di Civitanova e la Pinacoteca Civica Marco Moretti, è il frutto di un lavoro condotto con passione e professionalità volto al recupero e alla valorizzazione del Patrimonio culturale colpito dall’evento sismico del 2016.

Nel territorio interessato dal terremoto sono stati censiti 100 teatri storici, 315 biblioteche, 400 musei e raccolte, oltre 1.000 monumenti tra abbazie, chiese, santuari, rocche e castelli, 34 siti archeologici e 22 tra i borghi più belli d’Italia. Un enorme patrimonio storico-culturale finito tra le macerie che per quanto si è potuto è stato messo in salvo, ma che si deve riportare all’antico splendore.
All’opera condotta dai Vigili del Fuoco, Protezione Civile, Esercito, Carabinieri del Comando Tutela Patrimonio Culturale e volontari, che ha permesso di salvare 6.300 opere d’arte, noi abbiamo voluto affiancare questa rassegna d’arte che testimonia la ricchezza della Terra di Marca, che manifesta il nostro plauso rivolto a tutti quelli che hanno contribuito al recupero dei Beni culturali e che vuole accendere un riflettore sullo sterminato patrimonio che connota e caratterizza ogni parte di questa regione.
Hanno portato in mostra un frammento dello straordinario patrimonio ferito dal terremoto perché anche con questo appuntamento si possa dare nuovo slancio per affrontare il lungo e doloroso percorso di rinascita, valorizzazione e condivisione delle bellezze artistiche, della storia e dell’anima di questi luoghi sfregiati che con forza vogliono rinascere alla vita.
SONO STATI ESPOSTE nello Spazio Multimediale San Francesco a Civitanova Marche Alta, dal 17 dicembre 2017 al 25 febbraio 2018, quattordici opere provenienti da Fermo, Ascoli Piceno, Arquata del Tronto e Civitanova Marche, grandi tele di eccellente fattura e importanti sculture, che vanno dal XVII secolo al XIX secolo e che dimostreranno l’altissimo livello della nostra civiltà figlia di numerose e straordinarie influenze artistiche.
Grazie alla collaborazione del Sindaco di Ascoli Piceno Guido Castelli, del Sindaco di Arquata del Tronto Aleandro Petrucci, grazie a S. E. l’Arcivescovo di Fermo Don Rocco Pennacchio, ed anche grazie alla Soprintendenza di Ancona, abbiamo ottenuto originali opere d’arte che saranno fruibili all’interno di un inedito percorso espositivo integrato da documentari, proiezioni e da una colonna sonora che proporrà pezzi di musica classica scelti dal repertorio dei più noti compositori marchigiani.
La rassegna si dilaterà con incontri, visite guidate e approfondimenti, che vedranno coinvolti il professor Stefano Papetti dell’Università di Camerino e il Prof. Giuseppe Capriotti dell’Università di Macerata.

virgolette-doppia-dimensione

Avvicinati a un grande dipinto come se ti avvicinassi a un grande principe. Per comprendere un capolavoro, dobbiamo inchinarci al suo cospetto e attendere, con il fiato sospeso, che si manifesti…”

Kakuzo Okakura
Lo Zen e la cerimonia del tè
(pag.59 – Piccola Enciclopedia SE, 1993)

EVENTO CURATO DA

Pinacoteca civica Marco Moretti
http://www.pinacotecamoretti.it
APPROFONDIMENTI

Le ripetute scosse telluriche che si sono succedute dal mese di agosto 2016 ad oggi hanno inferto gravi ferite al patrimonio architettonico e storico artistico dell’entroterra marchigiano, colpendo soprattutto quei centri appenninici che, sin dal Medioevo, avevano dato vita ad una intensa attività spirituale ed economica che ha favorito la crescita culturale di quella che oggi viene definita come la spina dorsale della Penisola. Posta nel cuore di questo territorio, anche la città di Ascoli Piceno ha subito le ingiurie del terremoto che hanno comportato la chiusura per inagibilità di numerose chiese, edifici pubblici e palazzi storici da sempre meta del turismo culturale: l’Amministrazione Comunale, grazie ai fondi resi disponibili dalle compagnie assicurative, ha in breve tempo provveduto alla messa in sicurezza di alcuni tra i monumenti più conosciuti del capoluogo piceno: la torre del Palazzo dei Capitani, le torri gemelle del complesso monumentale di San Francesco, la torre degli Ercolani, le chiese di Santa Maria della Carità e del Carmine e lo scalone di Palazzo Arrengo. La rapidità con cui si è intervenuti ha consentito ai turisti che, nonostante le preoccupazioni dovute al ripetersi degli eventi sismici, hanno continuato a visitare la città, di poter apprezzare le sedi museali comunali e tutti i più celebri monumenti cittadini, a fronte di una situazione che ancora oggi appare a livello regionale molto in ritardo rispetto alle urgenze connesse agli interventi di messa in sicurezza degli edifici storici. La chiesa di Sant’Angelo Magno, che sorge nel pittoresco quartiere della Piazzarola, ha subito anch’essa delle violente sollecitazioni strutturali che, compromettendo la stabilità dell’intero edificio, hanno consigliato dopo le violente scosse del 30 ottobre 2016 la rimozione di tutte le opere d’arte mobili conservate al suo interno: l’intervento, che ha riguardato l’intero apparato decorativo barocco della chiesa, è stato reso possibile grazie al tempestivo intervento dei carabinieri del Nucleo Tutela Patrimonio Culturale delle Marche, comandati dal maggiore Grasso, che ha coordinato il trasferimento delle opere d’arte presso il deposito del Forte Malatesta, individuato sin dal mese di settembre 2016 dai funzionari del Mibact come il luogo più idoneo per la conservazione delle opere d’arte mobili di proprietà pubblica provenienti dai centri terremotati. Con l’aiuto dei Vigili del Fuoco e dei tecnici comunali, sono state rimosse dalla chiesa tutte le pala d’altare eseguite nella seconda metà del XVII secolo per volontà degli abati Ciucci e Amati da alcuni tra i più rappresentativi pittori della scuola romana: da Maratta a Cerrini, da Ghezzi a Brandi, le tele di Sant’Angelo Magno costituiscono un importante pinacoteca che illustra gli orientamenti stilistici presenti nell’Urbe negli anni centrali del Seicento: il Classicismo di matrice sacchiana di Maratta e la esuberante teatralità esibita dai dipinti di Ghezzi e di Brandi, giunti da Roma a partire dal 1656, rappresentano una precoce testimonianza nei centri periferici dello Stato Pontificio della varietà stilistica che animava la scena artistica romana, dominata da personalità di artisti come Giuseppe Ghezzi e successivamente Carlo Maratta di origine marchigiana. Un documento coevo di grande suggestione, la guida cittadina redatta nel 1792 da Baldassarre Orsini, testimonia in modo diretto la vitalità della stagione pittorica ascolana settecentesca; l’operosità di artisti locali come Tommaso Nardini, Carlo Palucci, Biagio Miniera e Nicola Monti si intreccia con la venuta di importanti dipinti commissionati ai più insigni maestri attivi nell’Urbe, rinsaldando così quei legami con la cultura romana che già nel Seicento avevano alimentato la produzione artistica locale”. Fra le chiese cittadine più direttamente interessate dal rinnovamento seicentesco, quella di Sant’Angelo Magno ha conservato più integralmente l’apparato decorativo tardo barocco voluto dagli abati che si succedettero alla guida del monastero olivetano cui la chiesa era annessa. Il Libro de’ Ricordi del convento consente di ricostruire con buona dose di certezza gli interventi attuati a partire dal 1637 dagli abati Ciucci e Lenti, appartenenti a due illustri famiglie del patriziato ascolano, che si prodigarono per abbellire la chiesa e gli appartamenti di rappresentanza del complesso monastico, provvedendo all’acquisto di paramenti liturgici in preziosi tessuti serici veneziani (20 luglio 1637), di manufatti in argento sbalzato (1644), di arazzi, di corami d’oro destinati all’anticamera dell’appartamento degli abati (1639) e di trentaquattro dipinti provenienti da Roma (1640). Dopo che, nel 1651, Francesco Fiorelli ebbe completato la decorazione del chiostro avviata due decenni prima da Andrea Lilli, l’abate Ciucci diede inizio alla realizzazione dei nuovi dipinti destinati alla chiesa: nel 1655 veniva commissionata a Carlo Maratta la Vergine che appare a santa Francesca Romana e a Giacinto Brandi la Resurrezione; nel 1662 nuovamente Brandi veniva incaricato di dipingere le due tele raffiguranti il Beato Bernardo Tolomei e San Benedetto abate, collocate nei due altari che ancheggiano l’altare maggiore. Così nell’arco di dieci anni tutti gli altari della chiesa ebbero nuove tele, per la cui esecuzione ci si avvalse di artisti romani già affermati o in via di affermazione, opportunamente scelti fra i fautori di un compromesso stilistico fra le istanze barocche e quelle classiciste. Questa scelta moderata connota anche la realizzazione degli altari destinati ad accogliere le tele che venivano da Roma; gli
Chiesa di Sant’Angelo Magno Ascoli Piceno abati Ciucci e Lenti non vollero che la decorazione fosse di a marmo o di stucco “… con raggiere dorate e folle d’angeli sgambettanti al di sopra delle trabeazioni, come gli artisti d’allora i andavano costruendo in altre chiese ascolane. Essi preferirono invece un’architettura tutta di legno scolpito, di stile classico leggermente baroccheggiante e con grande profusione d’oro” (Mariotti). Sul finire del secolo, l’abate Francesco Amati riprendeva l’opera di abbellimento avviata trent’anni prima dai suoi predecessori e faceva realizzare altri due altari, l’uno per la Sacra Famiglia di Giuseppe Ghezzi, dipinta nel 1698 e pagata centoquattro scudi, l’altro destinato ad accogliere un antico crocifisso ligneo cinquecentesco per soddisfare una sua speciale devozione (1719). L’ultimo e più impegnativo intervento riguardò la decorazione della volta del presbiterio e dell’arco trionfale, a data dallo stesso Amati al pennello di un sacerdote pittore ascolano, don Tommaso Nardini. Nato ad Ascoli da facoltosa famiglia nel 1658, egli era stato educato presso lo studio di Ludovico Trasi e dopo la morte di questi (1695) era passato a collaborare con l’architetto-scultore Giuseppe Giosalatti, eseguendo la decorazione pittorica di molti edifici da lui progettati. Da Trasi, Nardini aveva ricevuto un’educazione legata ai modi di Andrea Sacchi e di Carlo Maratta, la cui bottega il pittore ascolano aveva frequentato a Roma copiandone anche la Natività di San Giuseppe dei Falegnami (oggi conservata presso il Museo diocesano di Ascoli); dalla collaborazione con Giosafatti, invece, Nardini ricavò una più teatrale inclinazione compositiva che espresse nella decorazione di varie chiese ascolane. Sebbene le fonti locali non ne facciano menzione, è assai probabile che Nardini, come quasi tutti i pittori ascolani del tempo, abbia perfezionato la sua formazione a Roma, attento alle grandiose imprese decorative avviate dal Baciccio nella chiesa del Gesù e da Pozzo in Sant’Ignazio. Perduti gli affreschi realizzati dal pittore ascolano nella chiesa di Santa Caterina, deperiti quelli della cripta del Duomo, dei quali ho però rintracciato alcuni studi preliminari presso la Pinacoteca ascolana, restano soltanto i soffitti della chiesa dell’Annunziata e di Sant’Angelo Magno a testimoniare le qualità di Nardini come esuberante decoratore di interni. Già Lanzi, acuto conoscitore della realtà artistica picena, riservò un plauso particolare all’impresa di Sant’Angelo Magno, eseguita da Nardini negli ultimi anni di vita in collaborazione con il bolognese Agostino Collaceroni, allievo di padre Pozzo, incaricato di eseguire le quadrature. Il complesso programma iconografico, cui lo stesso pittore probabilmente concorse mettendo a frutto una profonda dottrina teologica, è teso a esaltare la gura dell’arcangelo Michele, titolare della chiesa, e più in generale il ruolo degli angeli nella storia del Cristianesimo. Per incarico di Amati, sulla volta del presbiterio dipinse l’Eterno Padre circondato da una folta gloria angelica, chiuso entro un robusto inquadramento architettonico mistilineo; sulle pareti raffigurò l’Apparizione di san Michele Arcangelo al vescovo di Siponto, la Cacciata di Eliodoro dal Tempio e i Quattro Evangelisti, mentre sopra l’arco trionfale compare la Cacciata degli angeli ribelli. Morto nel 1716 l’abate Amati, la decorazione venne poi ripresa dall’abate Cornacchia che incaricò Nardini di dipingere la volta della navata centrale sulla quale già nel XVI secolo erano stati realizzati degli ornati di gusto rinascimentale racchiudenti tre clipei, imbiancati sin dal 1659 per far luogo a una più elaborata decorazione. Così l’artista ascolano dipinse sulla volta della navata maggiore tre ovati raffiguranti l’Immacolata Concezione, l’Adorazione dell’Agnello mistico e l’Allegoria dell’Eucarestia; nelle vele figurano le Sibille (Cumana, Eritrea, Delfica, Ellespontica, Persica, Frigia, Tiburtina, Libica), mentre negli otto finti arazzi illusionisticamente appesi sopra gli archi delle navate laterali compaiono vari episodi biblici che hanno per protagonisti gli angeli. Nella controfacciata si nota invece una bella Estasi di santa Cecilia, caratterizzata dall’atteggiamento vivace degli angeli musicanti. La serrata intelaiatura architettonica di Collaceroni, ravvivata da cartigli e da festoni parzialmente dorati da Antonio Corpignoni, inquadra le animate composizioni concepite da Nardini con una chiara ricerca illusionistica, esaltata dall’uso sapiente della luce. In queste scene non mancano espliciti riferimenti alle opere del Baciccio, rilevabili in particolare nell’ovato raffigurante l’Adorazione dell’Agnello mistico, dove le figure dei patriarchi che compaiono in basso fra le nuvole ricordano quelle degli apostoli che assistono alla glorificazione dei santi francescani nell’affresco dipinto da Gaulli nel 1707 per la chiesa romana dei Santi Apostoli. A conferma di questa derivazione, possiamo ricordare che un’esercitazione grafica desunta dalla parte superiore della composizione del Baciccio compare fra i fogli riferiti a Nardini nella Pinacoteca civica di Ascoli, dove si conservano anche sei studi relativi alla decorazione di Sant’Angelo Magno. I fogli più antichi, risalenti al 1713, quando Nardini avviava la decorazione per incarico di Amati, sono da porsi in relazione con il dipinto dell’arco trionfale; l’uno propone un primo pensiero per uno degli angeli ribelli, poi eseguito in maniera diversa, mentre il secondo è relativo alla figura dell’Arcangelo Michele. Gli altri quattro studi si riferiscono invece alla grandiosa composizione realizzata sulla volta della navata su commissione dell’abate Cornacchia: il primo, a matita rossa su carta bianca, è relativo alla Sibilla Frigia che presenta un impianto analogo a quello dell’Eritrea, dipinta sul lato opposto, come se il pittore si fosse avvalso dello stesso cartone. La figura femminile con un ampio mantello è invece da collegare all’allegoria dell’Eucarestia della quale Nardini ha anche studiato attentamente a sanguigna la mano che impugna la falce: due disegni a matita rossa si riferiscono alla Sibilla Delfica e alla tunica dell’angelo che adora l’Agnello mistico. Mancano invece studi di insieme, abbozzi preliminari che Nardini era solito eseguire a penna e inchiostro marrone con un segno veloce. Gli studi inediti collegati alla decorazione di Sant’Angelo Magno non presentano alcuna significativa variante rispetto all’esecuzione finale; sono eseguiti a matita nera o rossa con un tratto diligente. Questi fogli dimostrano l’importanza da lui attribuita alla pratica disegnativa, considerata come un necessario momento di studio relativo a imprese pittoriche assai varie e impegnative, ma anche come sussidio per i collaboratori che lo affiancavano nella realizzazione dell’opera, soprattutto negli ultimi anni di vita del pittore. È poi da sottolineare come nei disegni preparatori esaminati le singole figure appaiano isolate, prive di riferimenti relativi al resto della composizione, né compare alcuno studio relativo all’inquadramento architettonico per il quale Nardini si affidò completamente a Collaceroni. Questo straordinari apparato decorativo, che include anche la realizzazione degli elaborati paliotti dipinti a ramages , dei confessionali e di altri manufatti destinati alla pratica liturgica è stato profondamente segnato dalle scosse telluriche dell’ottobre 2016 e ci auguriamo che l’opportunità offerta dall’Amministrazione Comunale di Civitanova Marche possa accendere i riflettori sulla necessità di provvedere quanto prima al ripristino dell’insigne monumento ascolano.

Prof. Stefano Papetti, Docente Universitario, Consulente scientifico nel settore dei Beni Culturali e Museali

E’ difficile ricostruire le vicende dell’insediamento agostiniano a Civitanova Alta, probabilmente risalente alla prima metà del Duecento, esigue e lacunose sono le fonti documentarie. Della chiesa tardo medievale restano il portale e il campanile cuspidato. Gli interni hanno forme architettoniche ascrivibili al XVII-XVIII secolo. La chiesa ad aula ha sei altari laterali e si presenta con un ricco quanto elegante apparato decorativo in stucco attribuito a Gioacchino Varlè (Roma, 1734 – Ancona, 1806), allievo di Camillo Rusconi. Gli altari laterali sono tre per ogni lato della navata, due più vicini all’altar maggiore, adiacenti al piano presbiteriale, sono voltati a tutto sesto con cartigli e cornici movimentate, statue in stucco di angeli, conchiglie e motivi vegetali, gli altri quattro sono più lineari, con timpani triangolari dalle imposte spezzate. La chiesa di Sant’Agostino, alienata dalla Curia di Fermo, il 30 giugno del 1987, viene acquistata dal Comune di Civitanova Marche con le opere pittoriche tra cui le tre pale d’altare del pittore pesarese Pietro Tedeschi (Pesaro 1750-Roma 1805/08). Lo spazio restaurato e adeguatamente attrezzato per mostre d’arte e concerti è oggi vissuto come estensione naturale della Pinacoteca civica Marco Moretti. Le tre pale d’altare firmate da Pietro Tedeschi, artista anzitempo neoclassico, allievo di Gian Andrea Lazzarini, che espletò gran parte della sua attività a Roma, sono poste negli altari laterali dello pseudo transetto e nell’altare a destra dell’entrata principale di Sant’Agostino: la Madonna della Cintola, a sinistra dello pseudo transetto, di fronte a questa c’è San Nicola da Tolentino e le Anime Purganti, sull’altare a destra dell’ingresso principale si trova l’Elemosina di San Tommaso da Villanova. La personalità artistica di Pietro Tedeschi, che si trasferì a Roma nel 1777 e da qui mandò agli agostiniani le opere civitanovesi, si rivela ampiamente in questi dipinti che attendono e meritano un accurato esame perché possono contribuire a tracciare una chiara mappa della sua attività di pittore ancora poco conosciuto e non sufficientemente apprezzato. Armonia delle forme, ispirazione classica e riferimenti letterari sono la cifra che segna l’opera del Tedeschi che lavora sì a Bologna e nelle Marche, ma che a Roma trova la sua distinta ed espressiva via pittorica e le commissioni, come le realizzazioni testimoniano la posizione di prestigio raggiunta dal Tedeschi a Roma nel tardo Settecento. Dei dipinti di Sant’Agostino non si conosce la storia, tutte le carte civitanovesi sono andate perse, ma certo è che l’Elemosina di S. Tommaso da Villanova datata 1808 ci permette di spostare di qualche anno la morte del pittore tradizionalmente indicata e accettata nel 1805. Per la chiesa di Civitanova Alta Pietro Tedeschi manda da Roma, in diversi momenti, tre pale d’altare firmate e datate. La prima opera inviata è la Madonna della
Cintura e Santa Monica, collocata sul terzo altare di sinistra nell’area presbiteriale. Il tema è quello della donazione della cintola, simbolo di fedeltà e di consolazione, l’immagine si riferisce ai frati e alle suore agostiniani che portano in vita una cinta di cuoio nero. Al centro della composizione la Vergine Maria in un tripudio di luce e putti festanti, è sospesa, seduta su un trono di nuvole, alla sua sinistra in piedi Gesù Bambino che da un catino sorretto da un angelo prende una cintola. Maria rivolta a S. Monica le porge la cintola. La santa, madre di S. Agostino, nella veste nera dell’Ordine, è in piedi sul lato sinistro della pala, il viso segnato dagli anni, rapita guarda ed è guardata dalla Vergine, tra loro c’è un legame mistico disegnato e sottolineato visivamente dalla striscia scura della cintola che viene retta contemporaneamente dalla Madonna e da S. Monica. La firma di Pietro Tedeschi in basso a destra, Petrus Tedeschi Roma 1805, è dipinta nell’alzata di un basamento sul quale poggia una colonna che bilancia la solida gura della santa che ha ai piedi due angioletti. Uno quasi nascosto dal primo, prega rivolto al cielo, l’altro inginocchiato in primissimo piano, ci guarda e indica l’apparizione prodigiosa. Sullo sfondo un triangolo di paesaggio ci fa cogliere distintamente dolci colline, alberi e cespugli rigogliosi. La seconda pala del Tedeschi, realizzata a Roma e firmata 1807, è tutt’oggi collocata sul terzo altare a destra, dirimpetto alla Madonna della Cintola, e raffigura S. Nicola da Tolentino che intercede per le anime del Purgatorio. Il dipinto presenta sulla destra a gura intera il santo che, in una forma diversa del suffragio, vale a dire il santo taumaturgico, è nell’atto di intercedere per le anime purganti rivolgendosi alla Trinità dipinta sulla parte superiore della pala. Tra gli angeli e luce dorata, Cristo risorto, Dio Padre con il globo terrestre e la colomba bianca dello Spirito Santo, dialogo con S. Nicola implorante, rivolto verso l’alto, le braccia aperte ad indicate il cielo e i penitenti e mettere così in relazione le suppliche e la divinità trina. La testa di San Nicola spunta dall’abito agostiniano che è una superficie nera e compatta, sul petto risplende la stella, attributo che ricorda la visione di una stella levatasi dalla sua città natale, Sant’Angelo in Pontano, e fermatasi sull’oratorio degli agostiniani di Tolentino. A destra della tela, di fronte al santo, da una spaccatura della terra salgono i peccatori, uomini e donne dolenti avvolti dalle fiamme, le braccia tese in atto di supplica. Sullo sfondo un’ampia veduta di valli e dirupi, alberi e cespugli frondosi. Sempre sul fondo a sinistra si erge una fortezza e in lontananza il mare che tocca all’orizzonte il cielo velato da nubi. In primissimo piano, al bordo della voragine, è dipinto un libro chiuso, rappresentazione del limitato sapere umano, un teschio simbolo della vita eremitica e della caducità delle cose umane, gigli bianchi distintivi del santo. L’ultima pala d’altare inviata da Pietro Tedeschi a Civitanova Alta raffigura l’Elemosina di S. Tommaso da Villanova firmata Petrus Tedeschi 1808, data che sposta di tre anni in avanti la morte del pittore. La tela posta sul primo altare di destra entrando nella chiesa, rappresenta uno degli episodi più noti dell’iconografia dedicata all’agostiniano spagnolo, diventato vescovo di Villanova nel 1555 e canonizzato nel 1658. San Tommaso è dipinto nell’atto di fare l’elemosina ad una giovane donna. La storia vuole che S. Tommaso fece alle tre glie di un sarto povero il dono di cinquanta scudi ognuna per la loro dote. L’episodio va letto sotto l’influsso dell’Arcivescovo di Valenza che predicava una chiesa cattolica povera che distribuisce i suoi avere ai bisognosi. Il santo è ritratto in abiti sontuosi che dimostrano la sua condizione all’interno della gerarchia ecclesiastica, il pastorale finemente decorato nella mano sinistra con la quale regge anche un sacchetto pieno di monete come quella che sta deponendo nel palmo della mano della donna genuflessa ai suoi piedi. La donna è sul primo gradino di quello che si intuisce è il sagrato di una chiesa. Il pastorale, simbolo della missione del vescovo che guida il suo gregge, divide verticalmente in due parti la composizione pittorica: a destra di chi guarda c’è di scorcio la donna in abiti dimessi, scalza, inginocchiata di fronte al vescovo, tiene con il braccio destro un bambino e stende la mano sinistra per raccogliere l’elemosina. Sempre su questo lato una piccola folla di poveretti, a fianco a lei un altro bambino inginocchiato, un uomo cieco che si aggrappa ad un bastone e ancora una figura in lontananza che partecipa meravigliata al fatto straordinario. Sul lato sinistro del quadro, vediamo S. Tommaso, tre chierici e una colonna imponente che delimita lo spazio profano da quello sacro lasciato intuire alle spalle del santo e dei religiosi. Il primo chierico appresso S. Tommaso è proteso a proteggere il vescovo, si vede bene l’abito talare nero e sopra la cotta bianca, degli altri due scorgiamo in prospettiva i visi meravigliati per il fatto inconsueto che sta accadendo sotto i loro occhi. Lo sfondo un cielo velato da nubi dove si affacciano le fronde degli alberi. Le tre pale d’altare della chiesa di S. Agostino di Civitanova Alta testimoniano non solo l’attività del prolifico pittore pesarese, ma evidenziano i rinnovati rapporti col classicismo bolognese e forme di carattere già ottocentesco. Il caso di S. Agostino e delle opere del Tedeschi qui conservate è particolare. La chiesa accoglie l’ultima testimonianza del pittore datata 1808 che ci introduce già, prima del declino e dispersione del patrimonio artistico, nel periodo napoleonico. Le opere civitanovesi di Pietro Tedeschi, scampate alle razzie, ai danni del tempo, alla faciloneria degli uomini, aspettano un’accurata ricostruzione storica e artistica, uno studio serio e approfondito che dia finalmente loro dignità e risalto.

Enrica Bruni Stronati, Direttrice della Pinacoteca civica Marco Moretti

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Di maraviglia, credo, mi dipinsi…

(Dante Alighieri – Purgatorio, Canto II)