Segrete Tracce di Memoria 2020

DATA: dal 23 Gennaio al 09 Febbraio 2020

LUOGO: Genova – Piazza Matteotti 9 – Torre Grimaldina di Palazzo Ducale

SPAZIO: Antiche prigioni della Torre Grimaldina e Spazio46 di Palazzo Ducale

EVENTO: Segrete Tracce di Memoria – Alleanza di artisti in memoria della Shoah – XII Edizione

AUTORI: Gianluca Capozzi, Isabel Consigliere, Elisabetta Di Sopra, Bernhard Draz, Silvia Margaria, Nano Valdes, Theo Van Keulen, Loredana Galante, Gialuigi Colin, Giò Gagliano, Giulia Gentilcore, Gloria Veronica Lavagnini, Cristiano Rizzo, Gaia Lucrezia Zaffarano

CATEGORIA ARTISTICA: Collettiva

CURATO DA: Virginia Monteverde per Art Commission Events

ORGANIZZATO DA: Art Commission Events

ENTI PROMOTORI: Art Commission, Genova Palazzo Ducale Fondazione per la Cultura, ILSREC

DESCRIZIONE EVENTO

SEGRETE – Tracce di Memoria è una rassegna d’arte contemporanea ideata e curata da Virginia Monteverde, che nasce nel 2009 per ricordare la Shoah e sensibilizzare soprattutto le giovani generazioni, attraverso l’arte, sulla più grande tragedia del secolo scorso. Grazie alla collaborazione di Genova Palazzo Ducale Fondazione per la Cultura, gli artisti hanno a disposizioni le suggestive celle delle antiche carceri della Torre Grimaldina di Palazzo Ducale.

“SEGRETE Tracce di Memoria, è uno degli appuntamenti che celebra questo giorno con una verità profonda, e anche con un linguaggio molto diversificato, un linguaggio che può comunicare sia con gli adulti che con i bambini, un linguaggio che può essere in qualche modo portato a casa perché le opere che sono raccolte quì sono racconti che toccano la memoria, toccano anche, come dire, la parte più cruda della memoria, ma oltre all’aspetto triste e malinconico legato naturalmente a dei ricordi terribili, c’è comunque l’aspetto della speranza, c’è l’idea e la dimensione del sogno che non viene dimenticata. Si può mettere in prigione, si può torturare, si può negare, si può addirittura far morire di fame qualcuno ma la cosa e non si potrà mai imprigionare è la testa e la dimensione che noi abbiamo dentro. Anche oggi, quando si va a Mauthausen, quando si va a Dacau, ci sono le lettere, ci sono i biglietti che sono sopravvissuti e tanti parlano di sogni, nonostante sapevano e vedevano con i propri occhi che cosa stava succedendo. E questo credo che sia un aspetto dell’uomo che è insuperabile. E gli artisti che sono raccolti quì hanno colto tutte queste sfumature, portandoci dentro ad un percorso che è molto intenso. Ma che è anche molto facille da cogliere. Ci sono video, ci sono installazioni, ci sono performance, ci sono tanti modi di dialogare ma ciascuno con una forza e una capacità sorprendenti, come sempre accade nell’Arte.
Mi pare che sia veramente un modo intelligente e non retorico per riflettere su alcune cose che sono accadute ma anche su alcune cose che stanno accadendo”.

Lorella Giudice, storica e critica dell’Arte (cit. dall’intevento di presentazione a Segrete 2020, XII ed.)

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La visione completa del programma è disponibile al link di Palazzo Ducale Genova

virgolette-doppia-dimensione

“Il Fascismo e il Nazismo hanno negato, attraverso la Cultura, la ricerca artistica. Perché nell’Arte si esprime una parte della vitalità e della diversità, perché l’Arte esprime, dovrebbe esprimere, il massimo della libertà di pensiero. Per questo diventa un nemico del totalitarismo, del Nazismo. E ‘Arte è al tempo stesso espressione critica e segno di speranza dell’uomo.”

Giacomo Ronzitti, Presidente ILSREC, (cit. dalla presentazione di Segrete 2020, XII ed.)

EVENTO CURATO DA

ART Commission – Genova (GE)
www.artcommissionevents.com
APPROFONDIMENTI

Oggi più che mai, in un momento storico in cui sovranismi ed egoismi cercano di
umiliare e cancellare le memorie scomode del passato, è fondamentale coltivare la
lezione della Storia. La Rassegna Segrete – Tracce di Memoria, rappresenta
un’esperienza unica che ogni anno si rinnova nelle Antiche carceri della Torre
Grimaldina di Palazzo Ducale a Genova: la fusione tra Arte e Storia, per suscitare
nei visitatori, e soprattutto nelle giovani generazioni, emozioni e sentimenti che
traggono spunto dalla Tragedia della Shoah, ma si proiettano fino ai giorni nostri,
con riflessioni e interpretazioni degli attuali scenari internazionali. Una forte
testimonianza degli imprescindibili diritti umani di tutti i Popoli.
La rassegna organizzata da Art Commission, realizzata in occasione della
Giornata della Memoria, si articola in una serie di eventi, con contributi artistici
diversi: dal teatro, alla musica, alla poesia, che hanno il loro clou nella mostra
allestita nelle Antiche celle della Torre.
Nel percorso espositivo delle celle, le opere di:
Gianluca Capozzi, Isabel Consigliere, Elisabetta Di Sopra, Bernhard
Draz, Silvia Margaria, Nano Valdes, Theo van Keulen.
Performance di Loredana Galante
All’interno della Torre saranno inoltre allestite due mostre collaterali:
I bambini di Roman – installazione video di Gianluigi Colin, Art Director
de “La Lettura” del Corriere della Sera.
a cura di Manuela Composti, per ANPI di Borghetto Lodigiano – 167° Brigata
Garibaldi. F.lli Biancardi
Project Action T4 – installazione di Giò Gagliano a cura di Virginia Monteverde.
Lo Spazio46 di Palazzo Ducale ospiterà invece il progetto Giovani Artisti,
REMINISCENZE a cura di Gloria Veronica Lavagnini
Gli artisti, tutti provenienti dall’Accademia di Belle Arti di Brera, sono:
Giulia Gentilcore, Gloria Veronica Lavagnini, Cristiano Rizzo, Gaia Lucrezia
Zaffarano.

Lorella Giudici, Docente di Storia dell’Arte Contemporanea all’Accademia di Belle Arti di Brera di Milano e all’Accademia Albertina di Torino, ci offre una lettura ragionata delle opere presentate in occasione della XII edizione di Segrete, e dei loro autori.

GIANLUCA CAPOZZI (Avellino)

Untitled
video, minuti 06’32”, 2019

A guardare le prime immagini del video di Capozzi vengono in mente alcuni versi di Pascoli: “Ma tu, Maria, con le tue mani blande/ domi la pasta”, scriveva il poeta nel lontano 1909 alludendo all’abilità tutta femminile di impastare e di saper mettere in quei gesti così famigliari amore e dedizione, tradizione e sapienza. È un’immagine iconica, dentro la quale ritrovare l’identità della famiglia, la storia di un popolo, il senso stesso della vita. È questo che ci predisponiamo a vedere anche nel video, ma, più le immagini scorrono e più si fanno strada pensieri molto meno rassicuranti e ben lontani dall’idillica serenità pascoliana.

Con movimenti lenti e metodici le giovani mani di donna mondano una montagnola di pasta con il solo scopo di separare in tanti mucchietti le diverse famiglie di cui è composta: tonda, corta, sottile, rigata, a elica… Un’operazione accurata, chirurgica, eseguita con metodo e senza fretta. Uno dopo l’altro i pezzi consanguinei formano attorno al sempre più esiguo nucleo centrale una sorta di ordinata costellazione collaterale, fatta di piccoli cumuli di forme che hanno tutte la stessa foggia. Il risultato è però desolante: se il melange iniziale era allegro, giocoso e variegato, ora il rigido rigore imposto fa calare su tutto un senso di noia, di solitudine, di tristezza e di totale inutilità. Che sia corta o lunga, bucata o attorcigliata, sempre pasta è, che senso ha dividerla? Eppure, quante volte l’apparenza ha finito con l’essere più importante della sostanza? La storia è piena di questi “gesti”. Nei lager i reclusi avevano sul petto triangoli di colore diverso: rosso per i prigionieri politici, rosa per gli omosessuali, due triangoli gialli sovrapposti indicavano chi era ebreo… Troppo spesso gli uomini vengono classificati per razza, appartenenza, zona geografica, sesso o religione. Il video vuole essere una metafora – leggibile da tutti nella sua semplicità – che aiuti a riflettere su questi temi, ma anche sul nomadismo, sulla perdita di identità, sulla discriminazione. Non a caso, il filmato termina con una presa di coscienza che fa compiere a quelle mani un gesto risolutore: scompigliare tutti gli atolli per radunarli di nuovo in un solo mucchio, ritrovando unicità nella bellezza della diversità.

 

ISABEL CONSIGLIERE (Genova)

Quando ritornerai 2019/2020

Installazione. 5 elementi (vasche di vetro, stoffe, fiori veri, liquido conservante)

Cinque vasche di vetro, come moderni reliquiari, custodiscono ciascuna un fazzoletto di stoffa: leggero, impalpabile, morbido. Sono brandelli appartenuti a persone ormai estinte, della cui presenza sulla terra resta solo quel piccolo rettangolo di stoffa e, attraverso di esso, qualche ricordo custodito nella memoria di chi è sopravvissuto. Quei resti sono pur sempre un segno, una traccia, un sostegno a cui aggrapparsi. Da quei tessuti che, simili a spoglie di naufraghi paiono galleggiare in un mare senza tempo o in uno spazio senza più gravità, come per magia s’innalza poi un volo di fiori dai colori delicati, sublimazione di una trasformazione che da materiale si fa spirituale, da concreta si fa visionaria. “È – ci racconta l’artista – come l’attraversamento di un confine invisibile, che mediante un fenomeno al limite del favoloso, smaterializza e muta la sostanza delle cose, rendendole più sottili, più nobili. Attraverso la sublimazione anche ciò che ci appare inaccettabile, ad esempio il dolore e la morte, può assumere un nuovo valore, può elevarsi e cambiare in una nuova forma, più gentile, più vicina alle nostre corde emotive. Passato il momento dell’esacerbazione, la sublimazione apre una nuova strada, mostrando che anche ciò che sembra insuperabile muta, si trasforma, diventando un’essenza più fine, che fa parte di un ordine più vasto e ci risolleva, sopravvivendo a tutto e nonostante tutto”.

I fiori, allora, sono la metafora della vera natura dell’uomo, della sua parte più nascosta e fragile, della sua intimità più profonda. In una parola, quelle lievi corolle sono il traslato dell’anima, cioè di quella parte di noi che sopravvive oltre la morte. È una poetica raffigurazione della redenzione, per altro evocata anche nel titolo: Quando ritornerai.

“L’opera – ci fa sapere ancora Isabel Consigliere – è un omaggio alla memoria di tutti coloro che sono stati strappati con violenza e crudeltà alla vita, è la risposta a chi, volendo cancellarli dal mondo, non potrà però mai eliminarne lo spirito”, presente e vibrante in tutta la sua rinnovata bellezza, nascosto tra i petali di quei meravigliosi fiori, di cui si avverte persino un lieve profumo.

 

BERNHARD DRAZ (Berlino – Germania)

Genuine Austrian Führer Balls [Vere palle austriache del Führer], 2014

Installazione. Packaging printing on aluminium foil, Mirabell chocolate balls, spring steel holder, velvet, MDF base, acrylic hood

Graffiante, provocatorio, quasi irriverente, il lavoro di Draz tocca temi, opinioni e momenti difficili andando a far leva su ferite ancora aperte, su un immaginario che, anche di recente, ha dato prova di pericolose incrinature.

Il contesto è presto detto: in una teca, simile a quelle che si usano nei musei per esporre gioielli o oggetti preziosi, sono allineati in bella mostra una trentina di tondi cioccolatini, quasi del tutto identici a quelli che sono divenuti il simbolo di Vienna e che è impossibile non portare a casa quando si va a visitare una tra le più belle capitali europee: Le Palle di Mozart (in tedesco Mozartkugeln). L’unica differenza, ma alquanto sostanziale, è che sull’involucro di quelle esposte nei meandri delle Segrete non c’è l’effigie del noto musicista, ma quella di un altro austriaco, tristemente famoso: Adolf Hitler. Quindi, due figli della stessa terra, ma uno dei due l’ha tradita, l’ha ferita, l’ha umiliata.

I dettagli ce li fornisce l’artista: “Nel marzo del 1938, il popolo austriaco, solitamente innocuo e di indole gentile, cade vittima della violenta colonizzazione degli imperialisti tedeschi. La mossa è inaspettata e gli austrici sono impreparati. In un batter d’occhio, il potere coloniale senza scrupoli saccheggia le risorse naturali del glorioso ex impero asburgico. Gli imperialisti si appropriano di oltre 2,7 miliardi di scellini in oro e valuta estera. La nazione, un tempo orgogliosa, si ritrova addirittura spogliata del proprio nome, ma l’identità culturale dei paesi alpini, amanti del valzer e della pasticceria, non ha mai potuto essere spezzata. La memoria di questa coraggiosa e interiore resistenza, è stata affidata a una delle loro più note realizzazioni culinarie, che porta impresso il ritratto del personaggio austriaco probabilmente più importante e che verrà presentato al pubblico per la prima volta nelle segrete di Palazzo Ducale. Dopotutto, il capitalismo e il nazismo cooperavano in perfetta armonia già allora, e la pretesa che l’austriaco, un tempo molto acclamato e più famoso di tutti i suoi connazionali, fosse anche il loro peggior oppressore sembra non essere mai stata una contraddizione di termini”.

 

ELISABETTA DI SOPRA (Venezia)

The care, 2018

video, minuti 02’34”

Prendersi cura significa amare, proteggere, difendere e aiutare. Prendersi cura è l’esatto contrario del possedere, perché vuol dire accompagnare, accogliere, ma anche saper lasciare andare. La cura è tempo dedicato: “È il tempo che tu hai perduto per la tua rosa che ha fatto la tua rosa così importante”, fa dire Antoine de Saint-Exupery alla volpe che incontra il Piccolo Principe.

Nel video di Elisabetta Di Sopra, da un lato c’è l’esistenza che inizia e dall’altro la vita che volge al termine. Da un lato l’infante che viene deterso e asciugato dalle amorevoli cure della madre e dall’altro il vecchio copro di un uomo che viene purificato, con la stessa amorevole sollecitudine, dalle mani della donna che lo tiene in grembo. Tra i due estremi scorre la vita, si srotola il tempo, ma alla fine i due lembi si ricongiungono, principio ed epilogo diventano tutt’uno in un infinito ritorno di gesti e di presenze: la dolcezza della maternità si tramuta nel silente e rassegnato dolore della morte, nell’iconica immagine di una pietà laica, ma sempre con la consapevolezza che nascere e morire fanno parte della storia dell’umanità.

A tenere congiunti i due estremi in un commuovente racconto c’è l’acqua (e la udiamo scorrere come sottofondo delle immagini), che deterge e depura i corpi: quello acerbo e tenero del bimbo e quello esanime, pallido e ormai flaccido dell’uomo; c’è il gesto, che si ripete identico e che diviene saluto per chi arriva e commiato per chi se ne va; c’è il tocco di quelle mani di donna che accudiscono e che trasformano la materia in spirito, le carezze in puro amore, il bisogno in rispetto e, infine, c’è il mistero del buio che li avvolge e annulla qualsiasi dato spaziale.

È un racconto dolce-amaro, fatto di segni, di simboli, di silenzio e di emozione. È quasi una profezia che per compiersi nella sua ritualità più bella e nella sua dimensione più sublime ha però bisogno della presenza di tre generazioni.

Ogni interferenza esterna sarebbe una stonatura, non solo farebbe inceppare la scorrevolezza della narrazione, ma, soprattutto, infrangerebbe l’incantesimo svelando un infernale baratro di orrori.

 

SILVIA MARGARIA (Torino)

I pass, like night, from land to land, 2020

Video, minuti 01’43’’ e 2 Lightbox, 42 x 28 cm

“Noi sopravvissuti siamo una minoranza anomala oltre che esigua: siamo quelli che, per loro prevaricazione o abilità o fortuna, non hanno toccato il fondo”, scriveva Primo Levi ne I sommersi e i salvati. Sopravvivere equivale a resistere, a combattere contro la dirompente potenza dell’altro. Resistere è afferrare saldamente le proprie radici e non mollarle, per non precipitare e per non essere calpestati. Resistere vuol dire non dimenticare e portare con sé la testimonianza di quanto si è vissuto, di ciò che si è stati. Resistere significa non perdere la dignità, anche quando la lotta sembra inutile. Resistere è sperare, è non smarrire la fiducia nel destino, anche quando il medesimo pare avere assunto gli arcigni lineamenti del nemico. Ma, per resistere all’Olocausto, come racconta Heda Margolius Kovalis, non ci si doveva aggrappare alla vita, bensì alla morte: “come ci sei riuscita? Sopravvivere ai campi! Fuggire! Tutti credono che morire sia facile, e che invece la lotta per la vita richieda uno sforzo sovrumano. Di solito è il contrario”. Allora, per resistere occorre non sradicare la memoria, unico appiglio di salvezza. Proprio come quel ramo nel video di Silvia Margaria che, incagliato tra la sabbia della battigia, in equilibrio precario e sempre sul punto di essere sputato o inghiottito dal mare, sta compiendo un atto estremo di sopportazione, ha intrapreso una lotta eroica con i flutti impetuosi che sistematicamente lo travolgono, lo sommergono, lo risucchiano. Quel ramo per Silvia Margaria è l’emblema della memoria, che con ostinazione si oppone alla forza dell’oblio. Forse è una lotta impari, contro forti correnti e spostamenti tumultuosi, per non parlare del fluire del tempo, che trascinano via anche i tronchi o insabbiano altri rifiuti, altri ricordi. L’urgenza del racconto è ciò che muove anche il Vecchio Marinaio di Coleridge – ed è proprio da queste righe che nasce il titolo dell’opera – a intrattenere uno dei tre convitati per trasmettergli la storia: “finché quest’agghiacciante storia non sia detta dentro mi rode il cuore. Vago, come la notte, di terra in terra; ho acquisito uno strano potere di parola e mi basta sogguardarlo in volto l’uomo che mi deve ascoltare: a lui insegno la mia storia”.

 

NANO VALDES (Palma de Mallorca, Spagna)

Pulse, 2020

Installazione site specific

Il lavoro di Nano Valdes ha quasi sempre a che fare con l’universo: un luogo che per lui è magico, che ha ancora degli spazi da conoscere e dei segreti da svelare, tanto fiabesco quanto però inafferrabile. In particolare, la presenza di riferimenti che rimandano al cielo sono per lui una fonte di meraviglia e di mistero, di bellezza e di ispirazione. Anche per Segrete Valdes ha pensato a una volta celeste, installando un soffitto di stelle luminose, un seducente sfarfallio di piccole luci che accolgono lo spettatore come fosse la notte di San Lorenzo. Incantato da quell’inatteso firmamento sotterraneo, il visitatore non si accorge di essere invece dentro al ventre di una grande bolla, di una cellula viva, che respira (e il rantolo si sente distintamente), che si gonfia riempiendo tutto lo spazio e che lentamente si svuota in un ritmo alternato, come fosse il corpo di un gigantesco animale. Ma ogni volta che si sgonfia avviene il parziale “crollo” della membrana, e con esso del cielo, e questo cedimento incide sullo spazio percepito dallo spettatore dandogli un senso di oppressione, lasciandolo disorientato, solo, asfittico, “schiacciato” dal peso floscio di quella massa. Così, anche quello che a prima vista sembrava essere un rifugio si trasforma in una trappola claustrofobica. Qualcosa di simile accade nei momenti di disperazione: facciamo fatica a trovare un appiglio e arranchiamo. Il dentro e il fuori si confondono. “Auschwitz è fuori di noi, ma è intorno a noi, è nell’aria – avverte Levi. La peste si è spenta, ma l’infezione serpeggia […]. Se ne descrivono i segni: il disconoscimento della solidarietà umana, l’indifferenza ottusa o cinica per il dolore altrui, l’abdicazione dell’intelletto e del senso morale davanti al principio d’autorità, e principalmente, alla radice di tutto, una marea di viltà, una viltà abissale, in maschera di virtù guerriera, di amor patrio e di fedeltà a un’idea”. Allo stesso tempo, però, il cielo rappresenta pur sempre un sogno e un segno di speranza: “È un gran miracolo che io non abbia rinunciato a tutte le mie speranze perché esse sembrano assurde e inattuabili. Le conservo ancora, nonostante tutto, perché continuo a credere nell’intima bontà dell’uomo”, ha lasciato scritto Anna Frank nel suo Diario.

 

THEO VAN KEULEN (Heeze-Leende – Olanda)

Verdwijning (Scomparsa o Sparizione), 1990

Installazione

Delle scarpe spaiate, una lunga fila di occhiali e qualche piccola valigia con miseri averi sono infilati su lunghe corde come perle di un doloroso rosario, è quel che resta delle prigioniere del campo di concentramento di Ravensbrück (la cui traduzione letterale sarebbe: “il ponte dei corvi”), il più grande capo di sterminio femminile a 90 chilometri da Berlino. Oltre duemila donne, che dopo l’occupazione avevano dovuto presentarsi al regime, hanno visto finire lì la loro vita nella maniera più atroce. Un gran numero di Ebree e di Rom, da un giorno all’altro sono improvvisamente svanite dalle strade delle città, alcune per motivi politici, molte solo perché credevano in un altro Dio. Sono partite senza lasciare traccia, come se non fossero mai esistite. “E così – ricorda Theo Van Keulen, autore di quest’installazione – anche mia sorella di appena 17 anni, una domenica mattina; ero lì quando fu arrestata dalla Gestapo e scomparve nel campo”.

La spaventosa verità di quella mesta sfilata di cose, divise per genere e appese come ghirlande su un immaginario altare, sono lì per ricordarci quella catastrofe, quella “tempesta devastante” (che poi è la traduzione del termine Shoah), sono uno dei tanti “segnalibri della memoria” che Levi ci invita a mettere in certe pagine della storia dell’umanità poiché “Quelli che non ricordano il passato sono condannati a ripeterlo”, recita una scritta vergata in tre lingue diverse su un monumento nel capo di concentramento di Dachau.

Purtroppo, però, le persone continuano a scompare anche oggi: muoiono inghiottite dal mare, sono barbaramente e ingiustamente giustiziate da regimi politici o religiosi, sono vittime di soprusi e di violenze. Di loro spesso non resta nulla, nemmeno un copro da seppellire, un volto su cui piangere. E il vuoto di quelle tombe è un peso insostenibile per chi resta. Quindi, ognuna di quelle cose sopravvissute all’Olocausto è l’invito a una preghiera, perché sulla superficie di quelle scarpe, dentro a quelle valigie, sulle lenti di quegli occhiali è impressa la storia di un uomo o di una donna che ha visto con i propri occhi l’immensità della stupidità umana.

L’articolo ospitato da INFOGENOVA

L’articolo a firma di Annissa Defilippi per il Secolo XIX e la video intervista alla curatrice Virginia Monteverde, realizzati in occasione della Giornata della Memoria 2020.

L’articolo pubblicato da ARTE.IT

La video intervervista alla curatrice Virginia Monteverde realizzata dalla redazione di ZETAZONE.IT

La recensione per Compagnia Filò, performance teatrale “Al ᛋᛋuo posto”

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CONTENUTI

Segrete Tracce di Memoria 2020 – Inaugurazione – Video

GENERE: Collettiva

Segrete Tracce di Memoria 2020 – Retrospettiva degli Artisti – Video

GENERE: Collettiva.

AUTORI

Di maraviglia, credo, mi dipinsi…

(Dante Alighieri – Purgatorio, Canto II)