Le ripetute scosse telluriche che si sono succedute dal mese di agosto 2016 ad oggi hanno inferto gravi ferite al patrimonio architettonico e storico artistico dell’entroterra marchigiano, colpendo soprattutto quei centri appenninici che, sin dal Medioevo, avevano dato vita ad una intensa attività spirituale ed economica che ha favorito la crescita culturale di quella che oggi viene definita come la spina dorsale della Penisola. Posta nel cuore di questo territorio, anche la città di Ascoli Piceno ha subito le ingiurie del terremoto che hanno comportato la chiusura per inagibilità di numerose chiese, edifici pubblici e palazzi storici da sempre meta del turismo culturale: l’Amministrazione Comunale, grazie ai fondi resi disponibili dalle compagnie assicurative, ha in breve tempo provveduto alla messa in sicurezza di alcuni tra i monumenti più conosciuti del capoluogo piceno: la torre del Palazzo dei Capitani, le torri gemelle del complesso monumentale di San Francesco, la torre degli Ercolani, le chiese di Santa Maria della Carità e del Carmine e lo scalone di Palazzo Arrengo. La rapidità con cui si è intervenuti ha consentito ai turisti che, nonostante le preoccupazioni dovute al ripetersi degli eventi sismici, hanno continuato a visitare la città, di poter apprezzare le sedi museali comunali e tutti i più celebri monumenti cittadini, a fronte di una situazione che ancora oggi appare a livello regionale molto in ritardo rispetto alle urgenze connesse agli interventi di messa in sicurezza degli edifici storici. La chiesa di Sant’Angelo Magno, che sorge nel pittoresco quartiere della Piazzarola, ha subito anch’essa delle violente sollecitazioni strutturali che, compromettendo la stabilità dell’intero edificio, hanno consigliato dopo le violente scosse del 30 ottobre 2016 la rimozione di tutte le opere d’arte mobili conservate al suo interno: l’intervento, che ha riguardato l’intero apparato decorativo barocco della chiesa, è stato reso possibile grazie al tempestivo intervento dei carabinieri del Nucleo Tutela Patrimonio Culturale delle Marche, comandati dal maggiore Grasso, che ha coordinato il trasferimento delle opere d’arte presso il deposito del Forte Malatesta, individuato sin dal mese di settembre 2016 dai funzionari del Mibact come il luogo più idoneo per la conservazione delle opere d’arte mobili di proprietà pubblica provenienti dai centri terremotati. Con l’aiuto dei Vigili del Fuoco e dei tecnici comunali, sono state rimosse dalla chiesa tutte le pala d’altare eseguite nella seconda metà del XVII secolo per volontà degli abati Ciucci e Amati da alcuni tra i più rappresentativi pittori della scuola romana: da Maratta a Cerrini, da Ghezzi a Brandi, le tele di Sant’Angelo Magno costituiscono un importante pinacoteca che illustra gli orientamenti stilistici presenti nell’Urbe negli anni centrali del Seicento: il Classicismo di matrice sacchiana di Maratta e la esuberante teatralità esibita dai dipinti di Ghezzi e di Brandi, giunti da Roma a partire dal 1656, rappresentano una precoce testimonianza nei centri periferici dello Stato Pontificio della varietà stilistica che animava la scena artistica romana, dominata da personalità di artisti come Giuseppe Ghezzi e successivamente Carlo Maratta di origine marchigiana. Un documento coevo di grande suggestione, la guida cittadina redatta nel 1792 da Baldassarre Orsini, testimonia in modo diretto la vitalità della stagione pittorica ascolana settecentesca; l’operosità di artisti locali come Tommaso Nardini, Carlo Palucci, Biagio Miniera e Nicola Monti si intreccia con la venuta di importanti dipinti commissionati ai più insigni maestri attivi nell’Urbe, rinsaldando così quei legami con la cultura romana che già nel Seicento avevano alimentato la produzione artistica locale”. Fra le chiese cittadine più direttamente interessate dal rinnovamento seicentesco, quella di Sant’Angelo Magno ha conservato più integralmente l’apparato decorativo tardo barocco voluto dagli abati che si succedettero alla guida del monastero olivetano cui la chiesa era annessa. Il Libro de’ Ricordi del convento consente di ricostruire con buona dose di certezza gli interventi attuati a partire dal 1637 dagli abati Ciucci e Lenti, appartenenti a due illustri famiglie del patriziato ascolano, che si prodigarono per abbellire la chiesa e gli appartamenti di rappresentanza del complesso monastico, provvedendo all’acquisto di paramenti liturgici in preziosi tessuti serici veneziani (20 luglio 1637), di manufatti in argento sbalzato (1644), di arazzi, di corami d’oro destinati all’anticamera dell’appartamento degli abati (1639) e di trentaquattro dipinti provenienti da Roma (1640). Dopo che, nel 1651, Francesco Fiorelli ebbe completato la decorazione del chiostro avviata due decenni prima da Andrea Lilli, l’abate Ciucci diede inizio alla realizzazione dei nuovi dipinti destinati alla chiesa: nel 1655 veniva commissionata a Carlo Maratta la Vergine che appare a santa Francesca Romana e a Giacinto Brandi la Resurrezione; nel 1662 nuovamente Brandi veniva incaricato di dipingere le due tele raffiguranti il Beato Bernardo Tolomei e San Benedetto abate, collocate nei due altari che ancheggiano l’altare maggiore. Così nell’arco di dieci anni tutti gli altari della chiesa ebbero nuove tele, per la cui esecuzione ci si avvalse di artisti romani già affermati o in via di affermazione, opportunamente scelti fra i fautori di un compromesso stilistico fra le istanze barocche e quelle classiciste. Questa scelta moderata connota anche la realizzazione degli altari destinati ad accogliere le tele che venivano da Roma; gli
Chiesa di Sant’Angelo Magno Ascoli Piceno abati Ciucci e Lenti non vollero che la decorazione fosse di a marmo o di stucco “… con raggiere dorate e folle d’angeli sgambettanti al di sopra delle trabeazioni, come gli artisti d’allora i andavano costruendo in altre chiese ascolane. Essi preferirono invece un’architettura tutta di legno scolpito, di stile classico leggermente baroccheggiante e con grande profusione d’oro” (Mariotti). Sul finire del secolo, l’abate Francesco Amati riprendeva l’opera di abbellimento avviata trent’anni prima dai suoi predecessori e faceva realizzare altri due altari, l’uno per la Sacra Famiglia di Giuseppe Ghezzi, dipinta nel 1698 e pagata centoquattro scudi, l’altro destinato ad accogliere un antico crocifisso ligneo cinquecentesco per soddisfare una sua speciale devozione (1719). L’ultimo e più impegnativo intervento riguardò la decorazione della volta del presbiterio e dell’arco trionfale, a data dallo stesso Amati al pennello di un sacerdote pittore ascolano, don Tommaso Nardini. Nato ad Ascoli da facoltosa famiglia nel 1658, egli era stato educato presso lo studio di Ludovico Trasi e dopo la morte di questi (1695) era passato a collaborare con l’architetto-scultore Giuseppe Giosalatti, eseguendo la decorazione pittorica di molti edifici da lui progettati. Da Trasi, Nardini aveva ricevuto un’educazione legata ai modi di Andrea Sacchi e di Carlo Maratta, la cui bottega il pittore ascolano aveva frequentato a Roma copiandone anche la Natività di San Giuseppe dei Falegnami (oggi conservata presso il Museo diocesano di Ascoli); dalla collaborazione con Giosafatti, invece, Nardini ricavò una più teatrale inclinazione compositiva che espresse nella decorazione di varie chiese ascolane. Sebbene le fonti locali non ne facciano menzione, è assai probabile che Nardini, come quasi tutti i pittori ascolani del tempo, abbia perfezionato la sua formazione a Roma, attento alle grandiose imprese decorative avviate dal Baciccio nella chiesa del Gesù e da Pozzo in Sant’Ignazio. Perduti gli affreschi realizzati dal pittore ascolano nella chiesa di Santa Caterina, deperiti quelli della cripta del Duomo, dei quali ho però rintracciato alcuni studi preliminari presso la Pinacoteca ascolana, restano soltanto i soffitti della chiesa dell’Annunziata e di Sant’Angelo Magno a testimoniare le qualità di Nardini come esuberante decoratore di interni. Già Lanzi, acuto conoscitore della realtà artistica picena, riservò un plauso particolare all’impresa di Sant’Angelo Magno, eseguita da Nardini negli ultimi anni di vita in collaborazione con il bolognese Agostino Collaceroni, allievo di padre Pozzo, incaricato di eseguire le quadrature. Il complesso programma iconografico, cui lo stesso pittore probabilmente concorse mettendo a frutto una profonda dottrina teologica, è teso a esaltare la gura dell’arcangelo Michele, titolare della chiesa, e più in generale il ruolo degli angeli nella storia del Cristianesimo. Per incarico di Amati, sulla volta del presbiterio dipinse l’Eterno Padre circondato da una folta gloria angelica, chiuso entro un robusto inquadramento architettonico mistilineo; sulle pareti raffigurò l’Apparizione di san Michele Arcangelo al vescovo di Siponto, la Cacciata di Eliodoro dal Tempio e i Quattro Evangelisti, mentre sopra l’arco trionfale compare la Cacciata degli angeli ribelli. Morto nel 1716 l’abate Amati, la decorazione venne poi ripresa dall’abate Cornacchia che incaricò Nardini di dipingere la volta della navata centrale sulla quale già nel XVI secolo erano stati realizzati degli ornati di gusto rinascimentale racchiudenti tre clipei, imbiancati sin dal 1659 per far luogo a una più elaborata decorazione. Così l’artista ascolano dipinse sulla volta della navata maggiore tre ovati raffiguranti l’Immacolata Concezione, l’Adorazione dell’Agnello mistico e l’Allegoria dell’Eucarestia; nelle vele figurano le Sibille (Cumana, Eritrea, Delfica, Ellespontica, Persica, Frigia, Tiburtina, Libica), mentre negli otto finti arazzi illusionisticamente appesi sopra gli archi delle navate laterali compaiono vari episodi biblici che hanno per protagonisti gli angeli. Nella controfacciata si nota invece una bella Estasi di santa Cecilia, caratterizzata dall’atteggiamento vivace degli angeli musicanti. La serrata intelaiatura architettonica di Collaceroni, ravvivata da cartigli e da festoni parzialmente dorati da Antonio Corpignoni, inquadra le animate composizioni concepite da Nardini con una chiara ricerca illusionistica, esaltata dall’uso sapiente della luce. In queste scene non mancano espliciti riferimenti alle opere del Baciccio, rilevabili in particolare nell’ovato raffigurante l’Adorazione dell’Agnello mistico, dove le figure dei patriarchi che compaiono in basso fra le nuvole ricordano quelle degli apostoli che assistono alla glorificazione dei santi francescani nell’affresco dipinto da Gaulli nel 1707 per la chiesa romana dei Santi Apostoli. A conferma di questa derivazione, possiamo ricordare che un’esercitazione grafica desunta dalla parte superiore della composizione del Baciccio compare fra i fogli riferiti a Nardini nella Pinacoteca civica di Ascoli, dove si conservano anche sei studi relativi alla decorazione di Sant’Angelo Magno. I fogli più antichi, risalenti al 1713, quando Nardini avviava la decorazione per incarico di Amati, sono da porsi in relazione con il dipinto dell’arco trionfale; l’uno propone un primo pensiero per uno degli angeli ribelli, poi eseguito in maniera diversa, mentre il secondo è relativo alla figura dell’Arcangelo Michele. Gli altri quattro studi si riferiscono invece alla grandiosa composizione realizzata sulla volta della navata su commissione dell’abate Cornacchia: il primo, a matita rossa su carta bianca, è relativo alla Sibilla Frigia che presenta un impianto analogo a quello dell’Eritrea, dipinta sul lato opposto, come se il pittore si fosse avvalso dello stesso cartone. La figura femminile con un ampio mantello è invece da collegare all’allegoria dell’Eucarestia della quale Nardini ha anche studiato attentamente a sanguigna la mano che impugna la falce: due disegni a matita rossa si riferiscono alla Sibilla Delfica e alla tunica dell’angelo che adora l’Agnello mistico. Mancano invece studi di insieme, abbozzi preliminari che Nardini era solito eseguire a penna e inchiostro marrone con un segno veloce. Gli studi inediti collegati alla decorazione di Sant’Angelo Magno non presentano alcuna significativa variante rispetto all’esecuzione finale; sono eseguiti a matita nera o rossa con un tratto diligente. Questi fogli dimostrano l’importanza da lui attribuita alla pratica disegnativa, considerata come un necessario momento di studio relativo a imprese pittoriche assai varie e impegnative, ma anche come sussidio per i collaboratori che lo affiancavano nella realizzazione dell’opera, soprattutto negli ultimi anni di vita del pittore. È poi da sottolineare come nei disegni preparatori esaminati le singole figure appaiano isolate, prive di riferimenti relativi al resto della composizione, né compare alcuno studio relativo all’inquadramento architettonico per il quale Nardini si affidò completamente a Collaceroni. Questo straordinari apparato decorativo, che include anche la realizzazione degli elaborati paliotti dipinti a ramages , dei confessionali e di altri manufatti destinati alla pratica liturgica è stato profondamente segnato dalle scosse telluriche dell’ottobre 2016 e ci auguriamo che l’opportunità offerta dall’Amministrazione Comunale di Civitanova Marche possa accendere i riflettori sulla necessità di provvedere quanto prima al ripristino dell’insigne monumento ascolano.
Prof. Stefano Papetti, Docente Universitario, Consulente scientifico nel settore dei Beni Culturali e Museali